“La gastronomia governa la vita intera. I pianti del neonato invocano il seno della nutrice e il morente riceve ancora con piacere l’ultima bevanda che purtroppo non deve più digerire”. (Jean Anthelme Brillat-Savarin)
Il piatto del lutto respira piano, non fa rumore per non disturbare le lunghe ombre dei ricordi. E’ leggero e non fa nulla per farsi notare. E’ un piatto che consola con discrezione. E’ molto simile all’amico che sta vicino senza parlare. Non cerca una spiegazione o una giustificazione a ciò che sta accadendo, abbraccia con la sua presenza, protegge, scalda il cuore. E questo è quello che vogliamo quando si perde una persona cara.
Per questo motivo il piatto del lutto dev’essere innanzitutto caldo. Non un brodino punitivo ma una zuppa con una personalità consolatoria. Dev’essere una minestra in solitudine, composta da un alimento al massimo due. Quando si sta affrontando la perdita di una persona cara non è il momento di confusione, di minestroni, di guazzabugli. La sobrietà è apprezzabile e, soprattutto, apprezzata.
Una zuppa di patate, un tubero molto terreno, capace di tenerci coi piedi per terra e di svolgere la fondamentale funzione di spartiacque: di qua i vivi, di là i morti. Ci colloca dalla parte giusta di quel sottile filo che separa la vita dalla morte. Non possiamo tenere legato a noi chi ha imboccato il cammino dell’aldilà. Dev’essere messo in condizione di liberarsi dal giogo terreno al quale i vivi sono ancora magicamente incatenati.
Un brodo di media consistenza con qualche pezzo di patata che galleggia qua e là in superficie, nello stesso modo in cui riaffiorano a galla i ricordi più belli legati alla persona che non c’è più.
In aggiunta una spolverata di erba cipollina (allium schoenoprasum) pianta aromatica dal sapore forte utilizzata anche in erboristeria come cicatrizzante. Accelera la guarigione di ferite e, sebbene qui non ci siano né sangue né croste, la ferita è molto profonda e di cicatrizzante ne serve veramente molto.