In principio furono tortillas in tutti i formati. Per il popolo dei Maya erano talmente divine che gli dedicarono il sesto dei diciotto mesi del calendario. Quando mise piede in Italia fondò la civiltà della polenta, civiltà misera ma sempre meglio che soffrire la fame. Ora si è trasformato nel compagno fedele dei bambini che al cinema sgranocchiano pop-corn nell’orecchio dei malcapitati vicini. Il mais è l’alimento sacro delle civiltà pre-colombiane che, con molta meno sacralità, si è adattato benissimo a qualunque territorio e a qualunque padrone. Non è diventata una specie a rischio come i bisonti dopo l’arrivo dei conquistadores. No, il mais si è adattato alla perfezione all’uomo, al territorio e alle diverse modalità di ibridazione. Ci si fa di tutto: liquori, dolci, farine, olio. Si usa per riscaldarsi e ci si fa anche la plastica biodegradabile. Da un chicco piccolo, duro, giallo e immangiabile, si ottiene un fiore bianco, spugnoso e gradevole. Basta metterlo in una padella col coperchio e aspettare pochi minuti. Il calore li fa esplodere per l’espansione dell’umidità interna in un balletto acrobatico che ha qualcosa di molto particolare. Lanciati a forte velocità è come se, nell’arco del tragitto, aprissero il paracadute e si cambiassero d’abito. Una trasformazione così profonda in pochi minuti che non viene compiuta da nessun altro alimento. Ma non è l’unica stranezza del mais. Sapevate che il mais ha un sesso? In cima allo stelo ha un pennacchio che ospita gli organi maschili: moltissime antere pendule che rilasciano polline nel corso di alcune giornate estive. Più sotto ci sono gli organi femminili: piccolissimi fiorellini disposti dentro una spiga racchiusa in un cartoccio. E l’uomo, diventando ibridatore, si è reso intimamente partecipe alla riproduzione del mais. Molto meglio di un’agenzia matrimoniale.