Rammenta l’estate ma cresce e matura in autunno. Questa sua caratteristica di “non essere al posto giusto” lo rende particolarmente simpatico. Ma c’è altro. Il caco è anche difficile da mangiare. E’ un frutto di non immediata comprensione, sarebbe utile che si portasse appresso un piccolo manuale d’istruzione. Non è come la banana che si tira giù la buccia e si mangia. O la mela che si inizia a mordere e si va avanti fino a quando non si incontra il torsolo. Nel caso del caco l’accesso è reso complicato dalla buccia sottilissima che non viene via in modo uniforme. Ma anche l’interno è insondabile. Alzi la mano chi, mangiando il frutto ben maturo, è riuscito a capire com’è fatto? Scavando col cucchiaino si trovano intriganti lingue e polpa, sparse qua e là, e alla fine, oltre al buon sapore, quello che rimane è una sensazione di incompiutezza, di confusione. Avrò mangiato tutto? E’ rimasto qualcosa?
Complesso, fuori posto e incompiuto: che strano destino quello del caco, considerato dal mondo “l’albero della pace” visto che durante il bombardamento atomico di Nagasaki furono gli unici essere viventi a sopravvivere.
Ma la sua storia non finisce qui. Da una condizione di “sopravvivenza” reale si passa a un ambito più animistico e magico. In napoletano, per esempio, il caco viene chiamato “legnasanta” e questo nome deriva dal fatto che, una volta aperto il frutto, al suo interno sembra di vedere l’immagine del Gesù sulla croce. I contadini dell’Emilia Romagna, invece più profani e concreti dei colleghi campani – al posto di Gesù sulla croce al suo interno (quando il frutto non è maturo) vedono forchette, coltelli e cucchiai. La forchetta preannuncia un inverno mite e poco nevoso, il coltello un freddo intenso, il cucchiaio neve in quantità.
Io, per cercare di bypassare la complessità di questo strano frutto, con i cachi della campagna del mio papà ho preparato un dolce semplice e molto lineare, anzi a strati. La base l’ho creata con tre cachi frullati insieme a zenzero fresco. Sopra ho aggiunto uno strato di yogurt greco mischiato a miele e infine ho appoggiato una generosa spolverata di granella di nocciole. Una delizia geometrica ma che, nonostate tutti i miei sforzi, non riesce a perdere la sua natura: il gusto finale del dolce, infatti, ha qualcosa di inspiegabile.